La fine della guerra in Iraq è il pretesto dell'autore americano Rajiv Joseph di origini indiane, per riflettere sulla guerra e sull'impossibilità da parte di un qualsiasi Dio di intromettersi fra i dissidi che solo gli umani sanno creare. Lo spettacolo è diretto ed interpretato da un Luca Barbareschi in splendida forma.
Dopo le polemiche, la rabbia, la delusione di un anno fa occorse intorno alla chiusura forzata – una morte annunciata purtroppo – del Teatro Eliseo e l’annesso Piccolo Eliseo, ecco che le due storiche sale di Via Nazionale, l’arteria che taglia in due il cuore della capitale, riprendono vita e splendore grazie all’interessamento e alla caparbia di Luca Barbareschi, alle istituzioni, e agli investimenti della sua Casanova Teatro. E lo fa in grande stile ed eleganza, e anche con un pizzico di impegno, il teatro sembra rinato ai vecchi fasti di quando vi agiva la Compagnia dei Giovani (i primi a portare in Italia il teatro di Tennesse Williams) scegliendo un testo non semplice e inedito per il nostro paese, che fu finalista al Premio Pulitzer nel 2010 e che in America fu interpretato a Broadway dal non mai abbastanza compianto Robert Williams. Una tigre del Bengala allo Zoo di Baghdad di Rajiv Joseph testo carico e grande metafora sulla guerra e sulla precarietà della vita. Nonché una grande prova per un attore di razza quale è Luca Barbareschi. Siamo a Baghdad come recita il titolo sul finire della guerra in Iraq e la famiglia di Saddam Hussein è stata sconfitta. Due innocui e sprovveduti marines che avevano preso parte al massacro della famiglia del dittatore, nella spartizione del bottino, di cui la casa/reggia era ricca, si son appropriati l’uno di una pistola laccata d’oro appartenuta Uday e l’altro di un sedile da water sempre in oro. Sono di guardia allo Zoo, e si aggirano nei pressi di una gabbia al cui interno c’è l’unico animale superstite, una saggia e vecchia tigre, un attimo di distrazione e la tigre afferra la mano di uno di loro, l’altro per difendere l’amico spara alla belva, uccidendola.
Da qui, in un susseguirsi di bellissime e felici intuizioni, il testo parte in un volo pindarico onirico e surreale. Un bel connubio fra teatro a indagine sociale e riflessione antropologica: una contrapposizione cruenta fra vita e morte, fra immaginazione e realtà, fra oriente e occidente. Nella possibile eventualità che un Essere Supremo, Dio nella fattispecie, possa mettere a posto le cose fra questi umani che purtroppo negli ultimi tempi non vanno così tanto d’accordo. E allora fra giardini dell’Eden con animali e fontane a grandezza naturale intagliati, nella natura ostile di un deserto, da un giovane giardiniere che decorano la casa dei potenti, fra l’abitudine agli scontri armati e alla necessaria sopravvivenza, fra scontri di culture e costumi, fra polvere, sangue, sperma ci si trova a scavare nella terra, unico elemento concreto, sulla difficile condizione dell’uomo moderno, dei tanti perché di una guerra assurda, di tante guerre assurde. E i morti provocati da quelle guerre si aggirano infelici e senza requie ad affollare un mondo sempre più stipato e disperato. E a questi si aggiunge lo spirito riflessivo e lirico di Tigre che cerca invano di capire se in quel magico giardino si aggira un Dio che può dare risposte che gli umani non sanno darsi. Dio non è morto è stato volontariamente imprigionato in gabbia da quegli stessi uomini affinché sia reso innocuo e i comuni mortali potessero avere libero sfogo alle loro efferate vendette, l’uno contro l’altro, in nome del consumismo, del progresso, del potere.
Luca Barbareschi dopo avere praticato ogni genere della comunicazione massmediologica, dal cinema al teatro, dalla televisione alla produzione, dalla politica alla regia ora provocatoriamente e brillantemente come interprete e regista si cala nei panni di una Tigre. E lo fa con la leggerezza, l’ironia, la poesia tipica della saggezza e del distacco di un’artista maturo. Vederlo ciabattare liberamente e sfrontatamente con degli infradito nella sabbia di un deserto ricostruito da Massimiliano Nocente sul palcoscenico dell’Eliseo, ascoltarlo citare sempre da Tigre Dante, Byron o Shakespeare mentre si rivolge al pubblico, occhieggiando, scrutando, ammiccando in sala con l’orgoglio raro di una scommessa vinta a pieno titolo, è un vero godimento. E fra i giovani interpreti maschili – se si fraseggia il bel momento di puro teatro regalatoci da Hossein Taheri – tutti bravi, anche se un po troppo concitati, si fa notare con grande sorpresa Marouane Zotti nel ruolo dell’interprete, un vero talento formatosi sotto l’ala protettrice di Luca Ronconi, misurato ed intenso allo stesso tempo e che con il capocomico conduce lo spettacolo verso i meritati applausi finali della terza replica di questo nuovo corso del Teatro Eliseo e cui auguriamo lunga e brillante vita .
UNA TIGRE DEL BENGALA ALLO ZOO DI BAGHDAD
di Rajiv Joseph
con e regia Luca Barbareschi
con Denis Fasolo, Andrea Bosca, Marouane Zotti,
Hossein Taheri, Sabri Khamiss, Nadia Kibutt
scene Massimiliano Nocente
costumi Andrea Viotti
musiche Marco Zurzolo
produzione Casanova Teatro
Teatro Eliseo, Roma fino al 11 ottobre
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