Serena Dandini, "Ferite a Morte", in collaborazione con Maura Misiti, ricercatrice al CNR, uscito lo scorso Gennaio in carta stampata. L'8 aprile ci sarà lo spettacolo teatrale all'Auditorium Parco della musica di Roma
“A me non mi ha sfiorato, sono rimasta viva, almeno così pensano tutti, ma anche se respiro e fumo le sigarette, da quel giorno sono morta e sepolta.”
Questo breve passo è tratto dall’ultima opera di Serena Dandini, “Ferite a Morte”, in collaborazione con Maura Misiti, ricercatrice al CNR, uscito lo scorso Gennaio in carta stampata. Specifico carta stampata poiché prima ancora di essere un libro, “Ferite a Morte” è un progetto teatrale che riempie i vari teatri italiani e che l’8 Aprile darà l’onore di percepirne lo spessore agli spettatori dell’Auditorium del Parco della musica di Roma. Se è vero che il titolo ci dice parecchio è anche vero che non ci delucida abbastanza sull’intreccio di storie che plasmano la sagoma sinuosa di tutti i racconti, racconti in cui serpeggia un unico fil rouge: il Femminicidio, cioè “la violenza estrema da parte di un uomo verso una donna, perché è donna” (cit. Diana Russel, sociologa).
Cosa è il femminicidio – Il Femminicidio, come espresso dalla Russel appena sopra, è la forma di violenza che sfrutta, di fatto, quella superiorità fisica propria del genere maschile, quella forza bruta che entra in gioco lì dove si riconosce la debolezza d’animo, lì dove l’uomo, in quanto uomo, è incapace di andare oltre la bramosia di possesso e di proprietà, lì dove cade ogni morale e riemerge dalle viscere più profonde dell’istinto quella forza atavica, incontrollabile, ma al più delle volte tristemente cosciente. Non basterebbe declinare il Femminicidio unicamente in questo modo, atteso che, la storia ce lo insegna, esistono ulteriori forme di omicidio ben oltre la fisicità: sono quei tipi di omicidi, non riconosciuti da istituzione alcuna, per i quali si prosegue la respirazione e la vita, meramente biologica, pur essendo l’anima ormai completamente straziata, totalmente morta.
Ferite a morte, la voce delle donne uccise – Quando parlano le donne nel romanzo ci si perde nell’incanto delle parole. La scelta della rappresentazione teatrale, in questo caso della forme di espressioni che ne sono proprie, di questo linguaggio che non conosce coordinate storiche o, tantomeno, geografiche, fa sì che il lettore sia completamente avvolto e travolto da un’onda di emozioni, piccoli sentimenti che vibrano nel cuore di chi legge. Storie ordinarie, che al contempo vengono profumate da odori fiabeschi e tragici. E’ in quelle, seppur poche, pagine, che il razionale si lascia appartenere dall’irrazionale, dove quel continuo disperdersi dei suoni rende magico il tutto. Dove non si conosce razza, dove non si distinguono lingue, dove il messaggio è forte e chiaro, “Nì una màs”. Non serve capire, basta intuirne il senso. Non hanno volti le donne alle quali la Dandini dà voce, ma solo il dar loro voce, il far parlare dei morti, anche se pur solamente nell’animo, e ormai incapaci di sciogliere parole al sole, è la più grande forma di amore per coloro le quali sono in vita, le astanti, e per coloro le quali nasceranno tra un secondo, un minuto, un anno o chissà, affinché possano condurre una vita, che seppure non conosca amore, quanto meno sia accompagnata dalla dignità e dal rispetto.
Lorenzo Serafinelli
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