Intervista esclusiva ad Annamaria Barbato Ricci, premiata col premio internazionale Donne che ce l'hanno fatta durante i tre giorni dell'agenda delle donne
Ha sempre concepito la vita come una sfida, accettandone i colpi bassi, ma senza smettere di inseguire i suoi sogni e le sue passioni. Annamaria Barbato Ricci ha messo al servizio del giornalismo il suo talento, inanellando riconoscimenti e successi. Autonoma, intraprendente, perspicace, il Premio internazionale “Donne che ce l’hanno fatta’ ha insignito alcune donne col turbo ‘per essersi contraddistinte per capacità e competenze nei più svariati settori, coraggiose , determinate, con tanta voglia di fare,di perseguire obiettivi di vita, di rendersi utile alla società’ Edizione Expo 2015“. Fra le premiate, anche lei, lo scorso 26 settembre Milano, durante la Conferenza Mondiale delle donne Pechino + 20, nella Sala Biagi del Palazzo Lombardia, insieme ad altre trentanove personalità al femminile provenienti da varie nazionalità. Un premio che le calza a pennello.
Esordisce un po’ circospetta: “Io sento sempre di non avercela mai fatta abbastanza, per cui mi ritengo indegna di questo Premio. Hanno voluto conferirmelo per il lavoro che, da trent’anni a questa parte, ho fatto nel mondo del giornalismo, sì, ma in posizioni dietro le quinte, seguendo la trincea degli uffici stampa, che, come sappiamo, svolgono un’attività che definirei da “Richelieu”. Poi precisa:”Alcune volte ho avuto il palcoscenico cartaceo o sul web, con tanto di firma (o di nom de plume), con Italia Oggi, o Il Corriere del Mezzogiorno e, soprattutto, con Il Giornale, quando era diretto dal grande Indro Montanelli.” e, sempre prudente, aggiunge: “Come dicono a Napoli ero un “pescetiello e cannuccia”, l’ultima ruota del carro, dovevo solo imparare, ed è quello che ho fatto. Un grande maestro lui, ma anche Giancarlo Mazzuca, all’epoca caporedattore della redazione economica.” Estremamente volitiva anche nei modi, il segreto del suo successo è la caparbietà con la quale ha raggiunto i suoi obiettivi; al talento ha aggiunto la passione e l’impegno.
Quale é stata la molla che ti ha spinto ad iniziare questa carriera e dedicarle la vita fino a proseguire con così tanti riconoscimenti?
A otto anni avevo già deciso di fare la giornalista. Senza se e senza ma. Avevo, infatti, imparato a leggere da autodidatta, sui giornali, che, a casa mia circolavano, almeno quattro differenti ogni giorno. La passione era tale che organizzai il giornalino scolastico e le mie compagne delle elementari ancora ricordano il tormento che davo a loro, perché parlavo loro di menabò e catenacci, termini di cui ignoravano l’esistenza. Erano ancora piuttosto “claudicanti “sul dettato, figurarsi sulla realizzazione degli articoli! Io spadroneggiavo con questo mio carattere così assertivo e un po’ prepotente per cui, poverine, mi vedevano come un incubo, una specie di kapò! Questa “fissa” l’ho trasportata anche alle medie, dove ho avuto una insegnante di Lettere, in collegio, al “Sacro Cuore” di Napoli, che mi incoraggiò moltissimo. Ora non c’è più, ma io voglio ricordarla: si chiamava Maria Vittoria Belloni Celentano. Lei credeva molto in me, e mi valorizzava moltissimo. E’ stata una pietra miliare e spesso mi trovano a sovrintendere anche i compiti in classe delle colleghe meno dotate. Ho continuato a perseguire questo sogno, attraverso i giornali locali, allorché ci ritrasferimmo a Nocera Inferiore, ai tempi del ginnasio.
Come mai in questa città?
E’ la mia città natale, in provincia di Salerno: qui ha vissuto in gioventù e ne ha fatto sua quasi unica fonte di ispirazione Domenico Rea, uno scrittore che io non amo, ritenendolo sovrastimato; ha studiato nel nostro Liceo ‘G.B.Vico’. che io ho frequentato, Michele Prisco, di tutt’altra stoffa e che, tra l’altro, è stato il compagno di banco del fratello di mia madre… Ci sono anche personaggi a torto sconosciuti, in questa mia città: ad esempio, una sorta di Leopardi locale che si chiamava Saverio Costantino Amato, morto giovanissimo. In casa sua si rifugiò Joachim Murat Jordy, nella sua fuga da Napoli verso Pizzo Calabro, dove a capo di un manipolo di uomini si scontrò contro l’esercito degli spodestati Borboni, e fu catturato e fucilato.
Ricordi le tue prime esperienze in un giornale?
Iniziai a collaborare con il giornale locale, fondato nel 1908. Allora c’erano questi giornali locali piccolissimi ma assai seguiti, il nostro si chiamava “Il Risorgimento Nocerino”. Purtroppo, con la morte del suo ultimo direttore storico Vittorio Caso, il giornale fu chiuso. E’ stato ripreso on-line da un giovane molto coraggioso, Gigi Di Mauro, ma non è più il giornale di una volta. D’altronde il web ora prevale: l’immediatezza delle informazioni sopravanza la tradizione. Ai tempi – avevo 16 anni – mi occupavo di satira sociale. Ho scritto in un articolo:”Ogni età ha la sua domanda, nell’ambiente di una cittadina ci si impiccia dei fatti degli altri con mille domande. Si comincia chiedendo: “Ma è nato? E’ maschio o femmina?”, quando ci si vuole informare della nascita di un bebé. La sua vita è negli anni monitorata: sta studiando? si laurea? Si sposa?ecc.. fino alla domanda suprema che si fa, al funerale, presso il feretro: “Ma…com’è morto? “
Dopo questa collaborazione al “Risorgimento Nocerino che fai fatto?
Molte cose. Una radio locale, Radio Nocera Amica, mi ‘scritturò’ come intervistatrice politica. Era buffo vedere delle vecchie volpi della politica locale messe sulla graticola dalle mie domande sempre … maliziose. Poi, per un anno circa, feci il caporedattore centrale di un settimanale, ‘La Città’, da cui sono usciti grandi nomi del giornalismo: ad esempio, Flavia Amabile, Pietro Romano, Gabriele Bojano e molti altri. La morte di mio padre m’impose uno stop e il trasferimento lavorativo a Napoli. Quella fu l’occasione di collaborare dall’esterno con l’Agenzia Giornalistica Italia, rubando il mestiere e impicciandomi di tante cose, opportunità che solo un’agenzia di stampa può dare. Accadde poi un episodio molto divertente che mi ha indirizzato verso il ruolo di addetto stampa. E non ci si confonda: è un mestiere assolutamente diverso da quello del giornalista, anzi, completamente antitetico. Il giornalista che lavora all’interno di un giornale ne assume in qualche modo la forma mentis e considera gli altri giornali dei potenziali concorrenti; al contrario l’addetto stampa deve mettere sullo stesso piano tutti i giornali, senza distinzione alcuna. Anche il linguaggio deve essere assolutamente ecumenico, cosa che non avviene quando si è di un giornale e si ha il linguaggio proprio di quella testata, trasmettendone, in un certo qual modo, l’imprinting politico. Bisogna anche dire che i giornalisti delle varie testate si sentono degli ‘unti del Signore’ e trattano gli altri con una vena di snobismo. Invece, noi, nati come addetti stampa, dobbiamo caricarci di umiltà, perché siamo al servizio di tutti i giornalisti, e li aiutiamo a 360 gradi. A me è capitato persino di coprire un famoso direttore di giornale, ancora oggi sulla cresta dell’onda, che doveva incontrarsi con un’amante! E’ per questo che non credo che un giornalista che lavora in qualsiasi testata possa mai diventare un buon addetto stampa. Questa storia di essere al servizio di qualcun altro, interiormente, gli pare una deminutio.
Ma il tuo vero inizio professionale quando è stato?
Tutto è nato, come dicevo, da un episodio divertente. Da ragazzina andavo al mare a Maiori, sulla Costiera Amalfitana. Erano i tempi d’oro della Democrazia Cristiana e capitava di ritrovarsi con alcune stelle di prima grandezza del Partito come Ciriaco De Mita e Clemente Mastella. Mi conoscevano fin da bambina, mia madre frequentava la signora Annamaria De Mita. Nel giugno del 1985, incontrai ad un matrimonio illustre Clemente Mastella. Era appena morto mio padre e io, grazie alla mia laurea in Giurisprudenza, mi stavo occupando del suo studio di commercialista. Tanto per fare conversazione, il tapino mi chiese: “Che stai facendo? Vuoi sempre fare la giornalista?” Lo guardai polemica e gli risposi:” Se ci sono quelli come te che promuovono i cretini, io, di fare la giornalista, non ho speranza!” Lui, che all’epoca era il capo ufficio stampa della DC, ovvero un potente di prima grandezza nel mondo del giornalismo, si sentì punto sull’onore e mi disse: “Dimmi in quale giornale vuoi andare e io te lo faccio subito.” “Non ti credo” risposi senza mezzi termini, “perché sei un politico e i politici promettono ma non mantengono mai. Comunque, se proprio vuoi farmi un favore, poiché vorrei far fare un salto di qualità al nostro studio professionale, preferirei frequentare un master in “business administration” presso il FORMEZ per specializzarmi.” Lui continuò a ripetermi di non preoccuparmi e che mi avrebbe fatto telefonare dal presidente del FORMEZ, Sergio Zoppi. “Il solito pallone gonfiato” pensai, e finì lì .Un paio di giorni dopo la telefonata arrivò sul serio, il presidente del FORMEZ mi convocò e mi disse che, malgrado avessi i titoli per partecipare al corso, non sarei stata ammessa, perché erano state chiuse le selezioni affidate all’esterno, all’ORGA, una nota società di reclutamento; però, per non deludere il mio illustre garante, pensò di offrirmi qualcosa di diverso. “Lei che sa fare?” mi chiese. Non ebbi esitazioni: avendo avuto già esperienze di ufficio stampa, risposi che mi piaceva quel tipo di lavoro. Mi prese in parola, e mi offrì la posizione di consulente, quale suo addetto stampa. Successivamente, sostenne anche un mio soggiorno-studio in Inghilterra, per frequentare corsi di specializzazione in materia, affinando il mio inglese e per undici anni sono stata il suo capo ufficio stampa. Ero a tutti gli effetti una dipendente del FORMEZ, mi sono molto impegnata riscuotendo un consenso generale per come svolgevo il lavoro. Il mio modo di scrivere piaceva molto, i miei colleghi giornalisti mi pubblicavano tutto e godevo di una grande stima e confidenza presso di loro. Mi consideravano la signora FORMEZ, così come Sergio Zoppi era chiamato il signor FORMEZ “.
Vivace, intuitiva, ironica, sagace, estremamente solare e comunicativa, hai questa “napoletanità” dentro di te che ti agevola alla relazione con gli altri: questo tuo carattere come ti ha arrecato vantaggi nel lavoro?
Come donna non ho quasi mai avuto problemi di molestie, forse perché portavo i miei rapporti ad un tale livello di amichevolezza da inibire qualsiasi altro atteggiamento. Se è scattata qualche scintilla con qualcuno, aveva comunque un sostrato sentimentale. Non ho mai usato il mio essere donna per scalare posizioni. Nemmeno ho ” sgomitato “, perché non mi piace, sono orgogliosa, tant’è che sono rimasta molte volte in fondo alla fila, non volendo usare altro che la mia professionalità per contraddistinguermi. Purtroppo, utilizzando le arti femminili, le più deteriori, molte donne sono arrivate … per poi lamentarsi della seduzione.
Ricordi qualche aneddoto nella tua carriera?
All’inizio del mio lavoro molto spesso ero l’unica donna presente nel mio ambiente. Ti racconto un fatto molto divertente. Ho lavorato con la Democrazia Cristiana, nella redazione del giornale di Partito, Il Popolo, gomito a gomito con tutte le realtà della vecchia politica. Dopo tanto vituperio coevo, oggi rimpiangiamo quel mondo, essendo scivolati sempre più in basso. Molti anni fa ci fu a Palermo una Festa dell’Amicizia della Democrazia Cristiana Nazionale e io facevo parte dello staff dell’Ufficio Stampa, credo fosse l’87 o giù di lì. Intervennero il Presidente del Consiglio di allora, Giovanni Goria, Giulio Andreotti ministro degli esteri, De Mita, Mastella, Nicolazzi e altri dei vari Partiti di allora. Finita la manifestazione ci trasferimmo in un noto ristorante di Mondello, il Charleston ed io ero l’unica donna in questa tavolata. Al piano superiore del ristorante era in corso un matrimonio e la sposa, accortasi di questi illustri ospiti, venne ad offrire loro delle bomboniere. Un po’ rozzamente, portò tre sacchettini che porse uno a Goria, uno ad Andreotti e uno a De Mita. Io ero seduta di fronte a De Mita e Goria, e, sulla destra, c’era Andreotti. Goria prese il sacchettino e se lo mise in tasca; Andreotti aprì il sacchettino e mangiò uno dei confetti, De Mita aprì il sacchettino e mi offrì il contenuto. Al che mi venne spontaneo dirgli: “Presidente, la classe non è acqua!” Questo piccolo gesto è stato significativo della natura di ciascuno dei tre, tanto è vero che poi tutti presero in giro Goria dicendo che aveva conservato il sacchettino per riciclarlo al matrimonio della figlia, che all’epoca aveva allora solo pochi anni: ma un sacchettino oggi, un sacchettino domani al suo matrimonio avrebbe tenuto tutte le bomboniere pronte!
Quanto è cambiato il giornalismo dagli inizi della tua carriera?
E’ cambiato l’ambiente, e non solo per le donne, ma per tutti. C’è una mancanza di lavoro assoluto nell’ambito giornalistico ed è una cosa vergognosa. Le giovani generazioni sembrano senza speranza, è una guerra fra poveri. E’ cambiata la prospettiva perché il Web ha fatto una grande rivoluzione, davvero copernicana, che se da una parte democratizza, da un’altra ruba professionalità. Il mondo della comunicazione è degenerato ed è morto. Tutti si sentono giornalisti, come tutti si sentono allenatori di calcio o presidenti del Consiglio, oltretutto aiutati soprattutto dai cattivi esempi della politica che sono sempre più dilaganti, dall’estremo svuotamento del senso della dignità e dell’onestà nonché del rispetto delle Istituzioni. Ogni giorno vedo l’erosione del ruolo del giornalista e i ricatti morali a chi vuole esercitare professionalmente il proprio lavoro. L’ultimo esempio è accaduto un mese fa: alcuni giovani giornalisti professionisti sono stati attratti da uno stage che prometteva ai migliori venticinque su trenta l’assunzione in una realtà giornalistica emergente. Alla fine, per alcuni, dopo una permanenza a proprie spese a Torino (visto che il compenso offerto loro era del tutto irrisorio, per il minimo di sopravvivenza in citta; meno di un bracciante del Tavoliere, circa 11 euro al giorno…), è stato loro detto che non era possibile tenerli perché delle venticinque assunzioni che promettevano ce ne sarebbero state solo otto. In realtà, si sono procurati del personale a costo praticamente zero per superare i mesi estivi. ”
Annamaria Barbato Ricci con il coraggio e la chiarezza che la contraddistinguono da sempre, conclude l’intervista con una esortazione rivolta a me, importante per chi fa questo mestiere: “Scrivi tutto quello che ho detto, perché quando c’è l’amore per la scrittura, il compenso più grande è potersi esprimere.”
Sabina Caligiani
COMMENTI