Mobbing sul lavoro per aver rifiutato un abuso

Mobbing sul lavoro per aver rifiutato un abuso

Elisabetta Ferrante, informatica presso una multinazionale di Torino, primo caso riconosciuto di mobbing sul lavoro

Trovare un lavoro oggi non è certo esperienza semplice. Quando poi il luogo di impiego diventa teatro di abusi e ingiustizie il tutto acquista un significato ancora più amaro. È ciò che è successo all’ingegnere Elisabetta Ferrante, informatica presso una multinazionale di Torino, alla quale il capo avrebbe paventato una notte di sesso a tre pena il licenziamento. Ora la donna è impegnata a difendere i suoi diritti di donna e lavoratrice su sei fronti legali per far valere i propri diritti di donna e di lavoratrice.
A rischio licenziamento per un “No” a un abuso – Tutto ha inizio nel 2000 quando un nuovo direttore la rese presto centro delle sue “attenzioni”: complimenti, avances esplicite davanti ai colleghi ma anche in privato, durante le riunioni ad arte prolungate fino a notte inoltrata. Poi una trasferta di lavoro in Olanda e quella richiesta sessuale tanto sfacciata.

Elisabetta Ferrante, informatica presso una multinazionale di Torino, primo caso riconosciuto di mobbing sul lavoro

Elisabetta Ferrante, informatica presso una multinazionale di Torino, primo caso riconosciuto di mobbing sul lavoro

La donna ricorda come all’epoca credesse nella possibilità di far carriera grazie alle sue capacità ma ben presto si accorse di quanto le cose fossero diverse fino alle proposte esplicite che rifiutò. Quella fu la sua rovina. Di ritorno dal viaggio si trovò improvvisamente senza ufficio, con i documenti in un scatolone, una scrivania contro il muro, senza mansioni e via via senza i progetti ai quali stava lavorando.
Mobbing dopo aver rifiutato avances – Dopo le prime lamentele all’azienda Elisabetta venne trasferita in un’altra sede. Da quel momento vive di crisi di panico; i  medici del lavoro intuiscono si tratti di mobbing aziendale ma per la donna la situazione si complica. A seguito della malattia viene licenziata.
“Ho deciso di far causa alla mia azienda, ma non è stato facile andare contro un colosso così grande”, spiega la vittima. Sono stati i giudici della Cassazione a darmi ragione e a confermare l’ipotesi di mobbing. La sentenza è arrivata nel 2008. la donna è stata reintegrata sul posto di lavoro, anche se con una mansione inferiore a quella che ricopriva un tempo, ma nessuna voce,ancora in termini di risarcimento.

Reintegrata ma senza risarcimento – I tempi biblici  dei tribunali e i conti salatissimi scoraggiano molti lavoratori dal prendere misure contro capi molesti o situazioni di illegalità. “Una cosa però, mi permetto di consigliarla a chi è vittima di soprusi e ha paura: ‘Reagite’, magari rivolgendovi alloSportello dei diritti, ma fate sentire la vostra voce, i vostri diritti, la vostra denuncia”.

Quello subito da Elisabetta Ferrante è uno dei primi casi che la giurisprudenza italiana ha inquadrato come mobbing, termine che definisce le condotte aggressive e frequenti nei confronti di un lavoratore compiute dal datore di lavoro, superiori o colleghi: una forma di “terrore psicologico” per emarginarlo o escluderlo.

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