"Non ci si può rassegnare a vivere nell'inferno della Libia"
Sekou Diabate racconta la tragedia nel Mediterraneo – “Mi hanno ucciso in Algeria, mi hanno ucciso in Libia, mi hanno ucciso sul barcone, quando ho visto affogare mio fratello Karim“. Queste le parole di Sekou Diabate, un ragazzo di 22 anni della Costa d’Avorio, sopravvissuto alla tragedia nel Mediterraneo che ha provocato la morte di oltre 700 persone, fra cui suo fratello maggiore Karim. Dopo quanto successo, Sekou non ha più nulla: non gli è rimasto un documento, un soldo, un effetto personale. Sekou ha raccontato a La Repubblica: “Pregavamo per non annegare, ma anche per non tornare mai più in Libia: è meglio morire che rimettere piede in quel paese. Da un piccolo villaggio ci hanno trasportato su piccoli gommoni alla barca più grande. E poi ci hanno dato un solo ordine: dovete stare sempre seduti, in piedi mai“. Ma alcune persone si sono alzate perché non ce la facevano più e, per punizione, sono state gettate in mare. Sekou ha raccontato l’incubo della traversata: “Quando siamo partiti, verso le 4 del mattino del 18 aprile, il mare era buono. Ci hanno fatto ammassare, uno dopo l’altro. Poi, vicino alla Tunisia, il mare ha cominciato ad agitarsi, onde alte, sempre più alte. Donne e bambini che gridavano e quasi tutti che vomitavano la poca acqua che avevano bevuto. Poi il mare è tornato calmo, ma vicino all’Italia, la barca ha iniziato a ballare molto forte. Il capitano ci ha detto di stare calmi perché stava arrivando la Croce Rossa (in realtà il mercantile portoghese King Jacob, avvicinatosi al barcone su segnalazione della Guardia Costiera italiana, ndr ) e a quel punto il capitano ha lasciato il timone e si è mischiato in mezzo a noi”.
Nella barca almeno 700 persone – La barca con i migranti, che ha provocato la più grande tragedia nel Mediterraneo mai avvenuta, si è rovesciata verso mezzanotte di sabato scorso, appena uscita dalle acque libiche. Quando è avvenuto l’incidente, prosegue Sekou, “intorno a me c’erano centinaia di persone che non sapevano nuotare. Li ho visto andare giù. Alcuni si aggrappavano ad altri e affondavano insieme. Io nuotavo e anche mio fratello Karim e poi anche lui è scomparso fra le onde. Karim aveva 28 anni, era il mio fratello più grande“. Sekou è stato invece soccorso dal mercantile King Jacob, ma non riesce a ricostruire quanto tempo sia stato in acqua. Nella barca erano stipati fino all’inverosimile più di 700 migranti.
“È vero che mio fratello Karim non c’è più, ma forse è meglio morire che vivere come vivevamo” – Ora Sekou vorrebbe rimanere in Italia, “se me lo permetteranno. Non so dove andare, ma so che vorrei trovare un lavoro per mandare un po’ di denaro a casa. Soldi per mangiare in famiglia ne abbiamo avuti sempre pochi, mio padre è morto quando ero piccolo, io e Karim lavoravamo in un’officina, ma quasi per niente“. Sekou racconta che, nonostante abbia vissuto la tragedia nel Mediterraneo, rifarebbe il viaggio sul barcone perché “non ci si può rassegnare a vivere in Costa d’Avorio o in quell’inferno che è la Libia. È vero che mio fratello Karim non c’è più, ma forse è meglio morire che vivere come vivevamo. Lo so che dico qualcosa di molto crudele, ma io ho conosciuto anche un’altra crudeltà“.
Fonte: La Repubblica
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