Bella, estremamente giovanile, Erminia Manfredi, modella di Roberto Capucci e moglie di Nino Manfredi si racconta a Female World
Bella, estremamente giovanile, Erminia Manfredi, modella di Roberto Capucci e moglie di Nino Manfredi, non teme l’età che ha arricchito di fascino la sua persona. “Nel viso è impresso il mio vissuto. Non nascondo i miei anni e mi meraviglio quando la gente mi dice che non devo rivelarli, ancora oggi ho interesse a conoscere, a sapere e ho il piacere di scoprire che ancora imparo.”
Erminia Manfredi si racconta a Female World
Bellezza, arte e amore sembrano essere i veri protagonisti della tua storia. La vogliamo raccontare?
” Bellezza e amore vuol dire interessarsi anche alla vita degli altri. Come per tutti, la mia storia ha avuto anche i suoi drammi, ma ho fatto tesoro del mio vissuto. D’altra parte cos’è la felicità senza la sofferenza che ti insegna?”
Mi confida di essere nata con una malformazione che la costringeva, sin da piccolina, spesso a letto, piena di dolori. Racconta di essere stata affidata a sant’Antonio e che tutti i martedì, giorni a lui dedicati, veniva vestita con il saio del santo. ” In quel letto, dalle ombre che si riflettevano sul soffitto della mia stanza, avevo imparato a riconoscere le persone che abitualmente passavano davanti alla mia casa,la lavandaia con il cesto di panni che andava al fiume a lavare, il capraio e altri ancora. Questo è stato il mio primo cinema.”
Poi parla della sua infanzia, nella seconda metà degli anni trenta, trascorsa in Libia, a Gadames, dove il papà dirigeva un albergo. Una bellissima cittadina meta di turisti eccellenti, studiosi, antropologi, fra l’oasi ed il deserto. “Un piccolo centro di architetture arabe con le case bianche una vicino all’altra per farsi ombra, collegate nella parte alta alla città delle donne, dove quelle di pelle bianca venivano chiuse a chiave dai mariti perché non potevano scendere nella città; solo alle nere e alle vecchie era permessa questa possibilità. Gli uomini andavano in giro portando a tracolla queste grandi chiavi.”
Luoghi belli, che però non nascondevano disagi, tra cui una certa difficoltà di comunicare per via della lingua: “Gli arabi con noi erano costretti a parlare in italiano e questo fatto ci causava un certo isolamento.”
Hai dei ricordi particolari di Gadames?
” Fra la gente che veniva a visitare questo luogo interessantissimo capitò un giorno, in albergo, la principessa Maria Josè di Savoia, allora Presidente della Croce Rossa. Era veramente competente dal punto di vista sanitario, perché quando mi vide, notò i miei dentini neri e mi diede dei medicinali appropriati. Da quel momento in poi cominciai a star sempre meglio. Mi regalò anche un gioiellino, una goccia di ametista e una bambolina di celluloide. Ancora oggi mi chiedo: “Ma che razza di bagagli aveva con sé? ” Poi racconta una storia bellissima sull’acqua: “il modo di dire “ti mando l’acqua per l’orto” ha veramente un senso” spiega.” Fuori dall’albergo, una cupoletta impastata di fango, proteggeva una sorgiva dentro cui un omino ricurvo, tutto rannicchiato, misurava l’acqua con i panieri mandandola con un movimento ritmico nei i vari orti. Quando bastava per quell’orto l’omino metteva un’asticella che percorreva il tragitto dell’acqua che arrivava all’orto e il contadino doveva capire quando fosse sufficiente e mettere la paratia in modo che l’acqua andasse nell’orto del vicino…”
Dopo Gadames, nel Trentanove, suo padre fu trasferito a dirigere un altro albergo in Africa orientale, a Gimma, in Etiopia e la famiglia lo raggiunse dopo dall’Italia.
Nel Quarantuno, quando gli inglesi arrivarono in quei luoghi, per ridare l’Africa al Negus, Hailé Selassié, da Gimma, Erminia con i suoi, si trasferì ad Addis Abeba, sempre in uno degli alberghi diretti da suo padre.
Mi spiega il significato delle “urla del silenzio”:” Gli africani, traditi per l’ennesima volta, non potendone più dei bianchi, si erano ribellati. Furono terribili momenti di guerra vissuti dagli italiani e da tutti quelli che abitavano in Africa in quel periodo. Io, con tutte le immagini dei santi, mi facevo “il cerchio magico” per riuscire ad addormentarmi, terrorizzata com’ero nel sentire le urla di tutti quelli che l’indomani avrei visto infilzati nei pali e morti con altre atrocità. Gli inglesi crearono dei campi di concentramento ad Addis Abeba, a Diredaua, a Mandera e a Berbera per poterci difendere. Lì siamo stati per circa un anno e mezzo, con la famiglia divisa, gli uomini da una parte e le donne dall’altra, accampati in tende e capannoni con intorno una tela di sacco e sopra la lamiera. Il vento sabbioso, il caldo terrificante del giorno e il freddo della notte, la sporcizia, le cimici erano per noi fonte di grande disagio. Inoltre la costrizione della convivenza negli spazi limitati dei campi di concentramento e il mestruo generava fra le donne una violenta isteria collettiva.”
Ma ecco la liberazione dalla prigionia per le donne e i bambini. In seguito a un accordo tra inglesi e italiani, grazie all’intervento di Pio XII, navi italiane da crociera, divenute le loro carrette del mare, riportano Erminia la sua famiglia in Italia, dopo un travagliato viaggio durato cinquanta giorni circumnavigando l’Africa e attraversando lo stretto di Gibilterra. Il papà era rimasto in Africa, con l’unica compagnia di quella bambolina regalata dalla principessa Maria Josè a Erminia, che lui aveva voluto come portafortuna quando fu diviso dal resto della famiglia, nei campi di concentramento.
Che ti rimane di questi ricordi?
“In fondo c’è sempre una speranza. C’ è sempre una nave, al di là del reticolato e io nella vita cerco sempre di prendere quella nave. In noi c’è del cattivo, ma anche del buono e non giudico. E’importante non avere pregiudizi, trovare delle qualità nelle persone; devo sempre pensare in positivo per combattere le negatività che ineluttabilmente si presentano ne quotidiano. Mi ha salvato la curiosità e la fantasia, l’esperienza mi ha reso consapevole del valore dell’esistenza umana che solo la bellezza dell’amore sa animare.” Amore non è un possedere, ma un andare verso gli altri in un arricchirsi continuo. Ho sempre dato importanza al rispetto della persona, della sua autonomia, della sua libertà di esprimersi. E’ un valore che mi è affiorato da quei disagi sofferti. Dalla tragicità di certi fatti emergono sensibilità nuove che ti fanno crescere e ti rendono migliore.” “
La bellezza ti ha portato nel mondo della moda
“Sono una persona che ha cercato di costruire la sua vita. Sono stata la prima modella nell’atelier di Roberto Capucci, che iniziava proprio in quell’anno. I tempi allora erano molto diversi da oggi e non c’era tanto clamore intorno a noi modelle. Dovevamo avere un nostro guardaroba di base, come avveniva per gli attori che avevano un loro corredo personale: scarpe nere, vestiti grigio, blu e smoking per le recite non in costume Cosi le indossatrici dovevano avere le scarpe di vitello nero con il tacco alto, di raso nero per la sera e bianco per la sposa. Con le scarpe di pelle ci dovevo anche camminare e, quando con i sanpietrini di Roma si rompevano i tacchi, zoppicando mi dovevo fermare al primo calzolaio che incontravo per la strada , in un attimo mi doveva aggiustare la scarpa, per poi proseguire.
La tua vita si è espressa artisticamente seguendo Nino Manfredi anche collaborando con lui nella scenografia dei suoi film
Non sono scenografa, eppure Nino si fidava di me. Nelle sue commedie ho realizzato sempre la scenografia. La vita negli alberghi, con mio padre, era molto stimolante da un punto di vista artistico, sono cresciuta in un ambiente che sollecitava la creatività, dove ho fatto veramente di tutto; come stimolante è stata Taormina, la mia città natale, con la bellezza del suo paesaggio, dei suoi colori, del suo mare. Accanto alla mia abitazione c’erano delle ricamatrici che con i loro telai si sedevano fuori dalle loro case a ricamare ed era bellissimo osservarle nei loro lavori. Mi sono ingegnata e ho creato tantissime cose, riciclavo tutto ciò che era possibile trasformandolo in qualche oggetto a volte anche artistico oltre che funzionale. Da Roberto Capucci, frequentando il suo laboratorio di sartoria, ho visto e ho appreso tantissimo dell’arte e delle architetture di quello stilista”
Come hai conosciuto Nino Manfredi?
“Era il primo anno che lavoravo da Roberto Capucci. Nino si esibiva a Roma in una rivista con le Sorelle Nava al teatro Sistina. I costumi erano di Roberto Capucci che aveva l’atelier proprio di fronte al Sistina. “Racconta un episodio divertente:
“stavamo assistendo alle prove di questo spettacolo e gli attori dovevano sembrare dei cani al guinzaglio. Uno di questi era Manfredi, con Bonagura e Pisu. Io rimasi così impressionata dalla loro bravura che me ne uscii con una frase per loro infelice: caspita quanto sono bravi, sono proprio dei cani!” E tutti a ridere…Nel gergo teatrale, infatti, quando un attore non è bravo si dice che è un cane perché abbaia e non recita! La moglie di Bonagura, che lavorava con noi e aveva frequentato l’Accademia con Roberto, ogni tanto mi parlava di questo Manfredi e a mia insaputa, gli mandava le mie fotografie da modella con i vestiti di Capucci. Lui le teneva nel suo camerino e ci parlava. Mi trovai poi una volta a Milano per lavoro e, casualmente, c’era anche Nino e Rosy Bonagura, alla quale, a quel punto, non parve vero di farci incontrare in una cena. Non ci siamo più divisi.”
Nel Cinquantacinque il matrimonio con Nino. “Nino è stato un grande amore” dichiara Erminia, “ lo seguivo nella sua vita artistica; i miei racconti, il mio vissuto erano divenuti parte nella sua vita da cui Nino ha tratto qualche ispirazione per i suoi film. Anche io ho fatto intensi viaggi nella sua mente, l’ho percepito profondamente nella sua personalità, nel suo modo di essere. Nino osservava e immagazzinava qualsiasi cosa per trarne spunti per la propria arte. “
E sempre Erminia, che al fianco di Nino Manfredi, ha vissuto con grande forza d’animo i momenti della sua malattia, lottando con lui, fino alla fine, contro l’inesorabilità del male e denunciando la terribile condizione della permanenza in rianimazione dell’attore colpito da un ictus, oggi continua a combattere per amore, in memoria del marito, per una patologia la cui sofferenza è tra le più atroci per l’uomo: la sclerosi laterale amiotrofica (SLA), svolgendo una assidua e incessante attività di sostegno ai malati.
La muovono sensibilità e indignazione, avendo constatato personalmente le immense difficoltà e l’abbandono che persone lucidissime nella coscienza, ma costrette all’assoluta immobilità dalla malattia, devono affrontare quotidianamente. Lo scopo di Erminia è dare voce a chi non l’ha più e braccia a chi è prigioniero del suo corpo immobile, pur essendo, con la mente, vigile. Il suo tempo lo dedica tutto a questa battaglia in memoria ed in onore di Nino, perché quella sofferenza che lui ha vissuto possa essere lenita. Ricorda il suo grande amico Claudio Sabelli, assistito dalla moglie Stefania, che, malato di SLA, esprimeva con straordinaria sensibilità l’intensa voglia di vivere, al di là della sofferenza. Cita un suo libro: ” Il guerriero immobile” scritto negli anni della malattia, grazie al suo apparecchio comunicatore, in cui si legge: ” Molti ricordi non mi rendono nostalgico, ma mi dotano di particolari poteri che mi permettono di entrare e uscire a mio piacimento dal mio corpo immobile e poggiare i piedi direttamente sulla terra del passato che però inizia subito a lamentarsi, minacciando di farsi ingombrante.“
Sabina Caligiani
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