Dalla Patria Potestà alla Responsabilità Genitoriale: l’arretratezza sociale

Dalla Patria Potestà alla Responsabilità Genitoriale: l’arretratezza sociale

Dalla Patria potestà alla responsabilità genitoriale, l'Italia vive ancora in una arretratezza sociale in merito a questi temi

Art. 29 della Costituzione: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il Matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.”

Repubblica ItalianaLa Costituzione del 1948 – La lungimiranza di coloro i quali plasmarono la nostra Carta Fondamentale dei diritti è tanto grande quanto la nostra arretratezza sociale e quanto il nostro rifiuto al cambiamento, in generale. Settantacinque anni fa, oltre a prevedere per la prima volta in Italia che le donne potessero accedere al diritto di voto, su esperienze europee che già da un centinaio d’anni circa avevano riconosciuto un tale diritto, l’Assemblea Costituente garantiva, oltre che tutela piena alla donna come individuo, piena eguaglianza all’interno della famiglia. È evidente però che le tavole della legge possano anche non corrispondere alla realtà, anticipando un mondo che verrà o procrastinando un mondo che non esiste, ormai, più. Più che un’anticipazione, il dettato costituzionale sembrava un vero e proprio azzardo. Il lasciar credere che la donna, in un battibaleno, sarebbe stata venerata e considerata alla stregua del capo famiglia.

Art. 3 della Costituzione – Se poi ci dovessimo riferire all’articolo 3 della Costituzione stessa dove viene enunciata in maniera lucida che “Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”, capiremmo bene come il quadro sulla carta è tutt’altro che corrispondente a quello intorno a noi: per essere più chiari, la percentuale di violenze domestiche è tutt’altro che diminuita, la percentuale di donne che lavorano, da un rapporto ISTAT, è pari al 47,2% a fronte degli uomini che riscontrano una percentuale del 70,3%, e per di più vengono preferite coloro le quali hanno un titolo di studio molto basso, per la corresponsione, evidentemente, di retribuzioni inferiori.

La Riforma del 1975 – Ventisette anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la società italiana ha tentato di stemperare la sua struttura profondamente antropocentrica con una serie di revisioni del codice civile e sulla scorta di un referendum popolare che nel 1970 aveva introdotto l’aborto. È un dato di fatto che a questa riforma si è giunti grazie a battaglie portate avanti da partiti di minoranza all’interno del Parlamento, come i radicali: testimonianza del fatto che, almeno qualche volta, le minoranze riescono a sconfiggere, supportate dal buon senso, le barriere della maggioranza. Certo, la Riforma in questione era mirabile da un punto di vista tecnico, ma ancora una volta, come già accaduto nel 1948, le scissure sociali non aspettarono molto a sopraggiungere: se è vero che la donna acquisiva uno status ancora più eguale a quello dell’uomo, la stagnante situazione sociale dello Stivale arginava queste spinte progressiste. Sulla carta la donna doveva infatti assumere parità nella dimensione economica, avendo pari diritti dell’uomo, ad esempio, nella conduzione dell’impresa familiare. Raggiungeva anche una rilevanza sostanziale nell’educazione dei figli e nel proseguimento di eventuali studi, che la stessa società naturale, la famiglia, deve tutelare. Diveniva, anche se sempre nell’inchiostro, una titolare di poteri co – decisionali e collaborativi. Se queste erano le previsioni della legge, rimaneva stampato nell’immaginario collettivo l’idea della donna come tacita muta, in uno stato d’assoggettamento tale da non permetterle di acquisire nuovamente la dignità sua propria. Per di più non si estingueva il concetto di patria potestà: la tutela e l’educazione dei figli, quasi con un arrière-pensée, un automatismo, veniva rimessa alla figura paterna.

Riforma del 2012 – Oltre ad una serie di riforme in materia di filiazione, notevolissime in quanto abbattono ogni forma di distinzione tra figlio legittimo e naturale, la legge n°219/2012 apporta un sostanziale aiuto all’evoluzione linguistica e mentale della nostra Repubblica. Questa tenta di ridefinire le linee strutturali della responsabilità che nasce dalla semplice procreazione, in termini non più di patria potestà, figlia di una cultura, azzarderei a dire, misogina, ma di responsabilità genitoriale. Potrebbe sembrare, almeno a primo acchito, un artificio semplicemente linguistico, magari per i non vicini alla materia meramente tecnico.
 Con le parole, mi verrebbe da dire, si fanno cose: è verosimile che settantacinque anni fa alla lettura di quel testo costituzionale, quasi aberrava l’idea di una donna così presentata, nonché l’idea che questa si fosse liberata, almeno solo sul piano formale, dello stato di soggezione. Quindi, perché non riporre fiducia in questo sforzo parlamentare? Perché non credere in una spinta dal basso? In fondo, dovremmo essere nel 2013.

Lorenzo Serafinelli

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