Cronaca dal concerto degli Arcade Fire
Sentiamo intonare le prime note della versione strumentale di Reflektor quando siamo ancora fuori dalla mura del Castello. Il piccolo centro di Villafranca è gremito di gente – tantissimi per il concerto, qualche sparuta anima anche per la fiera locale, non è facile trovare parcheggio. Finalmente incastriamo l’auto sotto il poggiolo di una villetta e via, corriamo verso il grande complesso di origine medievale: qui dobbiamo superare una gimkana di transenne, un paio di controlli biglietto (strano, nessuno ci chiede di aprire le borse) e siamo dentro un sogno.
Il Castello Scaligero, innanzitutto, ci sembra un’ambientazione perfetta: intimo, fiabesco, separa quello che si rivela essere un vero e proprio concerto polistrumentale dal rumore confuso del mondo al di fuori. Unici ospiti indesiderati, che riescono a intrufolarsi dall’alto: nuvoloni neri in processione incessante, accompagnati da lampi e tuoni, che comunque ben si amalgamano, i primi, con i bagliori coreografici del mastodontico impianto luci, i secondi, con i colpi di tamburo e congas sul palco. Palco che ci si presenta affollato e sorprendente: lo solcano più di dieci persone con altrettanti strumenti, dai più consueti violini e fisarmoniche, allo steel drum e alla ghironda, che Régine (di nome e di fatto, tant’è ammantata di paillettes) intona in Keep the Car Running. Il tutto è amplificato sia dai tre ordini di specchi esagonali che sovrastano il gruppo, che dal maxi-schermo alle loro spalle: lo spettacolo ci viene restituito sdoppiato, distorto, ri-colorato, tanto che pure noi, un po’ troppo di lato, riusciamo a goderci appieno ogni dettaglio.
Il concerto, dopo la canzone di apertura che dà il titolo all’ultimo album del 2013 (valutato nella top five dei migliori dell’anno da Rolling Stone), procede a ritmo incalzante, cantanti e astanti temono la pioggia imminente; è tutto un togliere e mettere il k-way. La scaletta, a mio modesto parere, è quanto di meglio ci si potesse aspettare dagli AF, un sapiente mix di brani del nuovo tour e di pezzi da novanta dei primi album, ci sono pure tutte le mie preferite della vecchia guardia: No cars go, Haïti, addirittura la versione intro di My body is a cage. Naturalmente non mancano i pezzi di punta di Reflektor, come Flashbulb Eyes, We Exist (che Win Bulter dedica a tutti coloro che vivono una situazione difficile con il proprio padre), Afterlife, It’s Never Over (nella quale Régine fronteggia Win dal B-stage, come novelli Euridice e Orfeo) e Here Comes The Night Time, accompagnato da un’esplosione di coriandoli multicolor che inonda la folla e fa trattenere il fiato, ormai chiudendo in bellezza la serata.
La band canadese stupisce non solo per la poetica musicale e lo show avvolgente, ma anche per le piccole provocazioni, che comunque non hanno nessuna velleità contestatrice o politica: fra i titoli finali si suona il Pie Jesu, mottetto tratto dal Dies Irae, durante il quale i musicisti si presentano bardati da enormi e caricaturali teste di papa. Win conclude con un “thanks for coming”, assicurandoci che quello nel Castello Scaligero è stato il più bel concerto dell’ultimo mese, con buona pace alle Capannelle di Roma. Siamo più che d’accordo, usciamo dalla magia elettrizzati e giusto in tempo per metterci al riparo dall’acquazzone, riuscito a trattenersi sino alle ultime note di Wake Up.
Claudia Turolla
COMMENTI